Raviolo [ra-viò-lo] raro raviuolo s.m. GASTRON spec. al pl. Rettangoli o dischi ripiegati di pasta all’uovo in sfoglia, ripieni di carne o ricotta o verdura, da mangiare per lo più asciutti, conditi con sugo o burro fuso e parmigiano.
Così lo descrive il Devoto-Oli. Wikipedia inizia la sua definizione attribuendo il raviolo alla cucina italiana, e solo qualche paragrafo più sotto spiega che fagottini di pasta, farciti nei modi più disparati, si trovano in moltissime culture gastronomiche fin dall’antichità.
Una delle più antiche ricette italiane di questo piatto, risalente agli anni tra il 1070 e il 1202, è proprio quella della locanda Raviolo di Gavi, sull’unica strada di comunicazione tra Genova e Alessandria ( e in una frase sola ho incluso storia, etimologia e curiosità. Viva la sintesi!). Non mi sogno neppure di rivendicare alla Liguria la paternità (
e perché non maternità, chè questa è una faccenda da mamme?) dei ravioli: ogni regione italiana va giustamente orgogliosa della propria versione e allora viva gli agnolotti piemontesi , gli anolini di Parma e Piacenza, i tortelli della Lombardia e dell’Emilia, i tordelli toscani, i marubini nel Cremonese , i cappellacci di Ferrara, i culurgiones sardi e via elencando. A Genova e nel levante ligure hanno i pansoti, le ben note mezzelune ripiene di magro condite con il sugo di noci, creazione relativamente recente, seppure deliziosa e molto ben descritta su questo blog.
Il raviolo a cui penso, quello del mio imprinting gastronomico, è una creazione che porta la semplicità al livello di arte e rappresenta
il manifesto della leggendaria parsimonia ligure, quella che i maligni chiamano tirchieria.
La sfoglia è un velo leggero, chiara, perché si impasta con al massimo un uovo, affinchè non si disfi in cottura e, meraviglia, lascia intravvedere il verde del ripieno.
Già, il ripieno… un altro piccolo capolavoro.
Quelli che adoro sono di magro, anche se ne esiste una versione di carne e verdura –
si dice che la presenza di carne nel ripieno sia direttamente proporzionale alla distanza da Genova . Le erbette possono variare in base al gusto personale e alla quantità di lavoro che si ha voglia di svolgere. Alcune si comprano, altre si raccolgono durante le gite in campagna. Ma vediamo un po’:
la borragine non può mai mancare, la foglia pelosetta e consistente dal sapore deciso rende unico il ripieno che la contiene. La versione selvatica la trovi nei campi, “sfuggita” agli orti dei paesi. Più blanda
la bietolina, tenera e di colore chiaro, la aggiungo per la delicatezza;
l’ortica conferisce quel tocco rustico e mi ricorda la primavera, quando i germogli sono teneri. Certamente prepararla richiede un po’ di attenzione perché, fino a quando non è cotta, la peluria urticante sulle sue foglie provoca fastidiose irritazioni della pelle. Et voilà! Il gioco è fatto: erbette sbollentate, ben strizzate e tritate, ricotta – se ne avete, se vi piace:
l’
estremo minimalismo del raviolo ponentino non la richiede – parmigiano, sale e pepe e mai dimenticare
la maggiorana, che aggiunge quel certo non so che e poi… assaggiate! Solo così si può essere certi del risultato.
Persino la sfoglia è alla portata di tutti: farina, acqua, uovo, un mezzo guscio di vino bianco (da consistenza in cottura), un pizzico di sale. Una volta preparato l’impasto si può usare
quella splendida macchinetta a manovella che ha giusto il nome di una provincia ligure… (non è pubblicità occulta, vero?) ne escono delle belle strisce regolari, pronte per accogliere il ripieno. Iniziate ora a contare e datemi retta,
mai meno di duecento.
Conditeli a piacere. A me,
al picco della liguritudine, piacciono anche solo con olio e formaggio,
olio del “nostro”naturalmente.
Mangiatene quindi senza alcuna moderazione, chè
fanno bene al corpo e all’anima.
Grazie a Paola Lanteri e Roberta Ciribilli per le foto dei ravioli ponentini!
L'articolo
La liguritudine del raviolo sembra essere il primo su
La Liguria racconta.